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Vi troverai qualche riflessione di un uomo che cerca un senso nella vita, pur frenato da tutti i limiti che centellinano l’acqua a chiunque abbia sete di conoscere e di capire. Con lo studio delle leggi medicee ho scrutato al microscopio qualche bacillo di un passato non troppo lontano, con I passi e le orme ho tirato qualche conclusione soggettiva sull'oltre rapportato all'Universo in cui viviamo: la Città di Dio, in cui credo.

I testi dei Passi e le orme e dei drammi teatrali li potrai leggere qui, per esteso, mentre dei saggi storici troverai solo l’arido elenco delle pubblicazioni.

Mi auguro che la lettura dei romanzi e dei drammi ti emozionino quanto hanno emozionato me, quando li ho scritti, se invece ... (ripetendo un’obsoleta clausola di maniera) “vi avessimo annoiato, ce ne scusiamo, perché non l’abbiamo fatto apposta”.

Gianni Cascio Pratilli

Gli alci di Poggio a Caiano

L'opera teatrale "Gli alci di Poggio a Caiano"

L'ultima volta che FrancescoI dei Medici cenò col 
fratello Ferdinando

 Pièce tratta dal romanzo I passi e le orme
 Firenze, Pagnini Editore, 2007
  
Introduzione
     In questa pièce palpita la cronaca di un giorno assai fosco per il Granducato di Toscana, quando Francesco I dei Medici e un suo ospite ostile, il cardinale Ferdinando, suo fratello, si sedettero a banchetto, per un'ultima volta insieme, a consumare una cena destinata nei secoli a restare, più che oscura, occulta.
   Nel riproporre quella cena, ho cercato di attenermi il più possibile ai documenti coevi che ce ne parlano, ma l'assurdità di troppe affermazioni illogiche in essi contenute smaschera le reticenze e le distorsioni imposte da un timore reverenziale verso il temibile cardinale: quel Ferdinando che, appena divenuto terzo granduca di Toscana, non esitò a incarcerare un suo stesso amico, Gianvettorio Soderini, reo unicamente di aver affidato alle carte una cronaca (tra l'altro "addomesticata") di quella cena.
   Per questo, pur nella massima attenzione prestata ai documenti originali, me ne sono tuttavia allontanato le volte in cui un'intrinseca contraddizione balzasse agli occhi. E ancora, per la necessità di sintesi che esige il palcoscenico, ho in qualche caso mutato la sequenza temporale di qualche accadimento. Così la presentazione degli alci al piccolo Don Antonio, in realtà avvenuta qualche giorno prima dell'8 ottobre, ha qui sostituito un pomeriggio che Francesco (già febbricitante) passò invece in mezzo ai suoi boscaioli, mentre tagliavano alcuni alberi in campagna. E, sempre incalzato dalla stessa necessità, ho omesso dal banchetto quel ristretto numero di commensali che le cronache ci riferiscono esservi stati, così come ho saltato la partita che Francesco giocò a carte dopo cena, intorno alle undici, col conte di San Secondo.
   Ad alcuni personaggi di coloritura ho voluto imprimere il crisma di un certo simbolismo, come nel caso del giardiniere, che invita il granduca ad andare a vedere un ippocastano (la "castagna cavallina" dal frutto spinoso e pungente), come se lo spronasse a prendere coscienza dell’insidia incombente. Il granduca, la cui mente continua a perdersi dietro i gelsomini (simbolo di un Rinascimento ormai moribondo) non gli dà ascolto, e soccombe. L'arbitrio più consistente l'ho preso, comunque, nel ricostruire i dialoghi tra il granduca e il fratello cardinale, e tra il cardinale e la Bianca, dialoghi che nessuna cronaca potrà mai restituirci. Io li ho immaginati così, come li ho descritti, fondandomi sull'osservazione di diversi fatti, anteriori e posteriori a quella fatidica giornata. In particolare, nel dialogo che precede la cena, Bianca e Ferdinando si danno del Lei, ma dopo la prima crisi di Francesco passano a darsi del tu: la Bianca per lo sgomento che la spinge a superare l'etichetta di corte, e il cardinale perché, sentendosi ormai vincitore, abbassa la soglia del rispetto.    Il fatto che Francesco ormai morente, la mattina del 19 ottobre, chiamasse al suo capezzale il fratello, per raccomandargli la moglie e il figliolo, va per me interpretato come un'accorata preghiera del vinto al vincitore, che risparmi almeno i suoi cari, e non come una persistente cieca incomprensione del subdolo fratricidio perpetrato cinicamente con un avvelenamento (probabilmente da arsenico) iniziato sei mesi prima e conclusosi con il colpo di grazia inferto a quella cena.
   L’autopsia voluta da Ferdinando per dimostrare che il fratello e la cognata erano morti di malaria, e non per avvelenamento, nella realtà storica fu eseguita dal vecchissimo Giulio Angeli da Barga, assisitito da Pietro Cappelli e Iacopo Soldani, alla presenza dei medici Baccio Baldini, Pietro Galletti e Giusto Curradi. Ma Giulio Angeli da Barga, che fin dal 1567 aveva insegnato all’Università di Pisa prima logica, poi filosofia e solo da ultimo medicina teorica (e non medicina pratica!), era un filosofo, non un medico, e non era certo in grado di eseguire un’autopsia. Quanto agli astanti, cioè i medici sullodati e un parente della Bianca, essi furono fatti accomodare su un banco così lontano dal tavolo operatorio che in realtà non poterono controllare niente. Sic transit gloria Mundi.
Gianni Cascio Pratilli

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